Intramontabili Jeans – Un colore, una stoffa, una storia
Io indosso jeans (dovrei dire blue jeans) fin dagli anni ’60; un pantalone ambito e non concesso, proibito per il mio sesso, di più perché allora non ero ancora ventenne.
C’è una foto di me, sul terrazzo della casa dei miei, i capelli legati in due ciuffetti da un nastrino, maglietta a righe: uno stile preso a piene mani da “Gioventù bruciata”, l’amato film con James Dean, il tutto regalato e imprestato da una cugina che poteva permettersi di andare alla moda.
Mi scuso se comincio da me, può sembrare molto personale, però…
Quando cominciai a lavorare, nella grande Azienda dove ero stata assunta, si era molto formali, bisognava esserlo, specialmente nel vestire e i pantaloni, figuriamoci i jeans, erano vietati per le ragazze. Dovevano arrivare gli anni ’70 per far cadere tante formalità.
Abbiamo parlato di costume, di passato, ma torniamo al titolo dell’articolo perché sarà interessante esplorare la storia, le trasformazioni di questo tessuto, conosciuto in tutto, tutto lo ripeto il Mondo come jeans = blue-jeans.
Dobbiamo partire da Genova e dal suo vicino Piemonte. A Chieri si fabbricava il fustagno, una stoffa resistente, che veniva tinta in blu col ‘guado’, un’erba coltivata localmente.
Questa pianta erbacea merita una digressione; “isatis tinctoria=guado”, dalla quale si estrae il colore blu usato da secoli nell’industria tessile in tutta Europa, in concorrenza con la Cina e il Giappone (da dove era stata importata).
Una noticina: i guerrieri britannici prima della battaglia si tingevano le guance e la fronte di blu proprio con la tintura ricavata da quella pianta: “il colore dei Barbari”, così tramandano storici romani come Cesare e Plinio, terrorizzava gli eserciti nemici.
In Italia la pianta fu coltivata fin dal XIII secolo ed è servita per i preziosi blu dei nostri magnifici arazzi e per le pitture.
il ‘guado’, la pianta erbacea di origine asiatica
Torniamo in Italia, da Chieri la tela indistruttibile passa a Genova che la adotta per i sacchi delle vele e per la copertura delle merci lasciate all’aperto nel porto.
I francesi se ne impossessano e le danno un nome: ‘blu di Genova’. Bleu de Gènes = blue jeans. Ecco fatto. Gli inglesi fin dal 1567 importano il fustagno genovese di colore blu e lo chiamano ‘jeans’.
Si dice che Garibaldi, nella fatale spedizione, e i suoi fidi indossavano pantaloni, chiamati ‘genovesi’ perché confezionati con quella stoffa.
Lo testimoniano una pubblicazione storica e i pantaloni dell’”Eroe dei due mondi nel Museo Centrale del Risorgimento a Roma.
La tela blu si diffonde dappertutto, ma la vera rivoluzione avverrà quando, alla metà del XIX secolo, un mercante di origine bavarese, di nome Morris Levis Strauss, dall’Europa arriva negli USA a San Francisco, apre un negozio e decide che avrebbe soddisfatto la richiesta di pantaloni da lavoro per i minatori confezionandoli con la ‘tela di Genova’.
Strauss apportò modifiche a quella dura stoffa, rese la tela più leggera e ne migliorò la qualità rendendola anche più resistente e di un colore blu inconfondibile. Firmò la sua ‘creatura’ rafforzando le tasche con ‘rivetti’, piccoli bottoni di rame (un serio miglioramento per le tasche che erano le prime a staccarsi e rompersi) e applicando una piccola targa, rettangolare, di pelle stampata, raffigurante due cavalli col nome della ditta stampato, sul bordo della tasca posteriore.
Il jeans negli USA divenne il simbolo non solo di minatore ma della costruzione della Ferrovia Transamericana, e infine dei cowboy e semplice sinonimo di pantalone, specialmente per la classe lavoratrice.
La Levi’s produceva il jeans in esclusiva fin quando nel 1890, scaduta la licenza del brevetto, si metteranno tutti a produrre jeans e la concorrenza, con suggerimenti anche della moda, la faranno da padroni. Nel tempo la stoffa verrà usata anche per altri capi di vestiario come: giubbotti, camicie ecc.
Intanto il blu jeans subisce qualche trasformazione, viene aggiunta una seconda tasca sul retro, il taschino per l’orologio in una delle tasche davanti, la ‘zip’ sostituisce i bottoni di metallo e finalmente nel 1935, sempre per ultime (sic), viene varato il modello da donna.
Sottolineo che l’indumento pantalone è stato attraverso i secoli un ‘tabù’ per le donne, con molte importanti eccezioni per quelle donne che osarono vestirsi da uomo. Ne ricordo una per tutte: Giovanna d’Arco, ‘la pulzella’.
Finalmente, a metà degli anni ’60 il pantalone fu proclamato capo di vestiario per le donne da Courrèges, in una memorabile sfilata, rivoluzionaria.
Un po’ più tardi, si era nell’89, Lara Cardella pubblicava in Italia “Volevo i pantaloni” un romanzo autobiografico, che parlava di emancipazione femminile in Sicilia.
Marylin Monroe in jeans
Anche in Europa, in Francia e Inghilterra si diffonde la produzione di jeans, due ditte per tutte: “Lee Cooper” in GB e Rica Levy in Francia, due aziende che si erano specializzate durante la guerra nella realizzazione di divise militari, confezionandole con le stoffe jeans.
Tre le marche USA le più importanti resistono ancora: Lewis per il Sud, Wrangler per il Nord e Lee per il Middlewest, erano e rimangono le loro sigle a contendersi il mercato.
Arriviamo quasi a noi, ho premesso e non mi ripeto che i primi jeans io li visti negli anni’60, quei bottoni di ferro non mi piacevano tanto e li indossavamo con i bordi rivoltati alle caviglie, come gli idoli del rock and roll, che amavamo a distanza, anche se c’era già, tra i cantanti in Italia chi li indossava, uno per tutti Celentano.
Una cosa è certa vestire jeans assunse una valenza di ribellione, una specie di “anti-moda”, un simbolo comune per giovani non solo di contestazione, di solidarietà, un volersi sentire uguali.
Jeans uguale cambiamento di immagine, ci vorrebbe un lungo elenco: posso partire dal cinema con “West Side Story”: i suoi magnifici ballerini in jeans, per arrivare agli attori come Belmondo, Redford o i presidenti: Kennedy, Obama e potrei continuare oltre.
Loro, i jeans eterni e intramontabili, sono una realtà un po’ mutata ai giorni nostri dove diventano ‘stracciosi’, cortissimi o bermude, vita bassa, vita alta, zampa d’elefante, con loro si può fare di tutto. Lo fanno anche i grandi dell’Alta moda’, due per tutti: Armani, Saint Laurent, fino ai nuovi ‘stilisti pop’, non fanno mancare il jeans nelle sfilate e se ne vedono di tutti i colori: per l’appunto uno è Kalvin Klein che da New York lancia il suo stile.
“jeans degli Stilisti”, Audrey Hepburn in jeans
Interessante anche per noi che pratichiamo il Quilting come Arte, inserire la stoffa jeans in alcune opere, in sintonia coi tempi, è stato facile. Ne vediamo infiniti esempi: dal rag quilt, all’inserimento di stoffa blu all’interno di quilt più tradizionali, non raggiungono la bellezza dei Quilt di tradizione ma portano comunque qualcosa di nuovo, una nuova ispirazione.
Due borse delle mie, riciclo blue-jeans.
Quel pantalone ‘stringicarne = flesh-squeezing’, quel sentirsi stretti fino allo spasimo, che mostrava più di quanto fosse permesso, quasi una seconda pelle, si è adattato ai tempi restando uguale, ma sono convinta che resta un capo formidabile, ‘un mito indossato’ durevole nel tempo, riconoscibile, che tiene unita una lunga storia comune, fatta di gente, di persone di tutto il Mondo.
Tullia Ferrero
Settembre 2020,
per ARTE MORBIDA